Yasunari Kawabata, “Il lago”

Di recente una carissima amica mi ha chiesto di consigliarle qualche libro di autori giapponesi, per cominciare a conoscere questa lontana letteratura. Se lo avessi letto prima, in virtù del profondo affetto che provo per questa persona e della bellezza del libro, le avrei certamente risposto: «Cara R., dovresti proprio cominciare leggendo “Il lago” di Kawabata, ecco perché». 

Leggere Kawabata è sempre un’esperienza che ha a che fare con la raffinatezza e la contemplazione. Sembra, leggendolo, di avere davanti uno di quegli oggetti perfetti che l’abilità degli artisti giapponesi è stata in grado di produrre, che stanno in una mano, una di quelle «piccole cose» che si meritano di trovarsi sole, al centro di una stanza, in modo da poter espandere il proprio significato esponenzialmente, fino a premiare gli occhi che le contemplano con lo svelamento di chissà quale segreto sull’esistenza o sulla natura, se ve ne sono. 

La tradizione giapponese, come insegna Okakura Kakuzo nel suo “Libro del tè”, predilige la dignità isolata del singolo oggetto all’ammassarsi di grandi collezioni e in Kawabata, nel suo modo di raccontare, l’attenzione quasi esasperata alla singolarità, che si tratti di un oggetto, di un personaggio, di un pensiero, è cifra fondante. In effetti, fra le motivazioni del Nobel che gli fu assegnato nel 1968 viene citata la capacità di aver dato voce alla «essenza del pensiero giapponese». 

Apparentemente, quindi, ci si trova di fronte a un romanzo che ha tutta l’estetica di ciò che nell’immaginario collettivo occidentale, complice la diffusione degli stessi testi di Kawabata, può essere definito “giapponese“, nel senso più stereotipato del termine. Solo apparentemente, però, perché Kawabata è capace, sotto a quella raffinatissima superficie laccata - che pur esiste, non è un’illusione - di dischiudere un mondo tragico e turbato, violento e violentemente sensuale, il cui fulcro, spesso, è un’estenuata ossessione. 

“Il lago”, in effetti, è proprio il racconto di un’ossessione, ricorrente in Kawabata e, probabilmente, uno dei suoi temi più cari: l’ossessione per la bellezza. Anzi, si può dire che l’ossessione sia duplice, poiché chi è ossessionato dalla bellezza non può che esserlo anche dalla bruttezza, e si può specificare ancora di più dicendo che “Il lago” si impernia sul racconto dell’ossessione della bruttezza posseduta e della bellezza ricercata.

Ginpei Momoi, il protagonista, è un giovane uomo afflitto da una non meglio precisata deformità dei piedi, una bruttezza ripugnante che, benché possa essere nascosta dietro alle vesti quotidiane, esala perennemente la sua indecenza. Egli, perciò, rimane completamente soggiogato dalla bellezza delle donne che incontra, preferibilmente giovanissime, e che una forza irresistibile gli impone di seguire: «Era forse possibile che la bruttezza di una parte del suo corpo gemesse disperatamente, assetata di bellezza? Che il destino concedesse a piedi deformi di inseguire splendide fanciulle?» 

Si potrebbe rispondere alla domanda con le parole del Socrate di Platone: «Considera ora, - disse Socrate - se, anziché verosimile, quanto segue non sia piuttosto necessario, che ciò che ha desiderio desideri quello di cui è mancante».

Momoi il monomaniaco insegue ciò che non possiede quasi suo malgrado, poiché le sue oscene estremità sembrano avere volontà propria, ma è certo del suo fallimento, poiché in lui sussiste una crudele consapevolezza.

La frustrazione di un perenne rifiuto, di più, di un perenne disprezzo, lo porta a considerare l’omicidio di quelle donne come l’unica conclusione possibile dei suoi pedinamenti. Meno magnanimi di quelli di Rilke, gli angeli tremendi che Momoi incontra, loro malgrado, lo distruggono. 

La distruzione omicida della cosa amata non trova mai un vero compimento, ma la tensione provata da Momoi non è per questo meno feroce. Noi leggiamo di quella tensione attraverso la dicotomia fra bellezza e bruttezza.

La bellezza, in Kawabata, è sempre in fiore e, ahimè, «sfiorisce presto». Le viene contrapposta spesso la vecchiaia che, per Kawabata, è intrinsecamente priva di bellezza. Tale contrapposizione, nella poetica di Kawabata, è sempre netta e genera immagini di grande potenza. Scritto nel 1954, “Il lago” anticipa non pochi temi e immagini di quel capolavoro che è “La casa delle belle addormentate”, del 1961: la vecchiaia e la bruttezza si trovano molto vicine, proprio in senso geografico, alla giovinezza e alla bellezza; il punto di contatto può essere estremamente ridotto, ma è sempre significativo: il capezzolo di una giovane fanciulla in fiore al quale si accosta la bocca di un vecchio. 

La detonazione derivante da simili, roboanti contrasti è inaspettata, violenta se vista all’interno di quella raffinata e delicatissima matrice che Kawabata apparentemente intesse come una seta sottilissima di kimono - seta di ragno! Lo spostamento d’aria che ne deriva solleva le cortine sopra scene di profonda sensualità. In ogni libro di Kawabata, o almeno, in ognuno fra quelli che ho letto io, la sensualità non è mai una faccenda di secondaria importanza, anzi, essa sembra essere il pilastro fondante della sua poetica. 

Si tratta però spesso di un tipo di sensualità estremamente sofferto, dal valore negativo, che germina dal contrasto più inaspettato o da un’immagine di corruzione del corpo, come nel caso della voglia deturpante sul seno di Kurimoto Chikako in “Mille gru” (so di aver già citato quest’immagine in altre recenti occasioni, ma questo serva come prova della veemenza delle immagini di Kawabata, difficili da eradicare).

La medesima corruzione affligge il corpo di Momoi, funzionale a far risaltare, come il marmo sulla pietra di paragone, la bellezza delle giovani donne che egli insegue. Ma la seduzione che ne scaturisce non è una seduzione positiva, poiché con sgomento scopriamo che alcune di loro reagiscono provando l’ambiguo piacere dell’essere seguite. Momoi è in grado di proiettare davanti a sé il piacere che prova, facendone sentire gli effetti anche a quelle che sono delle vere e proprie vittime. I giochi di specchi in Kawabata non si risparmiano, e l’inseguitore si tramuta in un inaspettato oggetto di piacere, trasformazione che egli subodora come se possedesse l’olfatto intelligente di un animale: «Come sarebbe possibile nell’essere umano il piacere di chi agisce se non esistesse quello di chi subisce?»

Il punto di maggior vicinanza fra le membra deturpate di Momoi e quelle di una fanciulla in fiore si trova però proprio all’inizio del romanzo, in una scena a mio avviso di una raffinatezza unica e di una bellezza smisurata, una scena in cui Kawabata fa confluire le forze provenienti da punti diversi, aumentando esponenzialmente la tensione che sarebbe derivata da una sola di queste forze prese singolarmente, di cui successivamente seguirà le direttrici in direzioni diverse. 

Momoi ha appena commesso un non meglio precisato crimine, e la sua fuga lo porta ad entrare in un bagno turco e a farsi fare un massaggio da una giovane ragazza. La sua nudità ripugnante si scontra con l’aspetto fresco della ragazza, ma soprattutto con la sua voce, che Momoi trova splendida: «Non si era mai accorto che attraverso l’udito potesse penetrare un’ebbrezza simile a un profumo». Mentre lei gli massaggia le membra, lui chiude gli occhi e parla con la lingua di un poeta e di un seduttore di grande talento, facendoci scoprire che quell’individuo corrotto in realtà si esprime con la dolcezza di chi vorremmo ci inseguisse. Lui è perfettamente consapevole che la ragazza non solo vede, ma toccherà i suoi piedi. Così la sua esecrabile vergogna, manifesta sul lettino della massaggiatrice, mostra agli stessi occhi serrati di Momoi i suoi recenti peccati, come se si trovasse inginocchiato davanti ad un confessore. La voce di lei lo porta in regni angelici, ma il suo tocco gli fa sentire i colpi del recente misfatto. Grazie al coinvolgimento di sensi diversi, l’equilibrio delle parti e delle tensioni raggiunge qui uno dei vertici di Kawabata, mentre ci troviamo di fronte un corpo ributtante esposto nella sua completa evidenza; il nostro udito è accompagnato dalla voce degli angeli e da parole che ce la indicano come tale; attraverso le sensazioni tattili questa trama viene attraversata dai ricordi di Momoi e il lettore, esasperato dalle forze applicate ai propri sensi, finisce per attendere trepidante una violenta deflagrazione, che non arriva mai. “Il lago“ sfuma in visioni contraddittorie, ruoli invertiti e ricordi ambigui, le sue forti correnti sotterranee increspano appena la superficie dell’acqua buia e profonda.