Perché i gattini rendono scemo il web?
Simbolo dei boomer, raggelato nell’estetica dozzinale di ascendenza facebookiana, o soggetto dinamico di un reel da rivedere in loop, il gatto è diventato protagonista di un culto irrefrenabile. La passione che genera è antica, ma oggi la situazione sembra essere veramente sfuggita di mano. Diventa, infatti, troppo facile perdere la testa, e distrarsi, guardando sui nostri smartphone la moltitudine di gattini – di tutti i colori e tutte le razze – che tempestano i nostri feed. Ne vedi uno e… Bam! Vieni risucchiato in un vortice di peli e fusa. Tutto sembra molto semplice, un semplice diversivo dalle preoccupazioni quotidiane, forse una forma di evasione infantile. Eppure c’è molto da dire, dietro il successo di questa passione che colonizza il nostro immaginario, e che riguarda sempre meno i gatti in sé e per sé…
Troppo animali, troppo poco animali
I gattini hanno dominato il web, incontrastati, fino all’arrivo della concorrenza canina. Eppure, sembrano avere qualche carta in più. Sono loro, con le loro code elastiche e i baffi arcuati, a fare capolino scorrendo il feed di Instagram, per poi lasciare posto ad un tenero musetto, agli occhietti birbanti, e infine a tutti quei dettagli che ci fanno sdilinquire, lasciandoti quel senso di tenerezza inevaso. Vomitevoli smancerie, direbbero certi cupi e insensibili hater, eppure dietro una certa diffidenza verso l’immaginario felino c’è qualcosa di interessante, un mondo di sensazioni tutto da sondare. Chiaramente, in queste carrellate e questi caroselli, i gatti “normali” non sono presi in considerazione. Troppi banali, tant’è che gli influencer fanno venire il desiderio di acquistare razze di gatti con evidenti problemi di salute – come il persiano, lo scottish fold, ecce cc – che poi rischiano di venire abbandonati da padroni non disposti a spendere capitali per le visite dal veterinario. Ma ecco, restando nello spazio del video carino e accattivante, non si rischia nulla. Solo questo senso di qualcosa di inappagato… che spinge a fruire sempre più contenuti così.
I cani attirano meno perché, in un certo senso, si danno di più, quando vengono catturati in un video. Lo bucano addirittura, divorando lo schermo, oppure sfocando la visione sventolando la loro lingua nell’inquadratura ravvicinata. Forse a volte accade anche nel mondo “reale”. Una persona che conosco si rifiuta di sterilizzare il proprio cane maschio perché, inconsciamente, con un transfert proietta la propria virilità su quella del cane. Un problema che – chiaramente – non si sarebbe fatto per un cane femmina. Infondo, lì la castrazione non si sarebbe “vista” o occhio nudo... È sempre lì, il problema. L’assenza di immaginazione delle persone. Si può essere sensibili, empatici, compassionevoli quando si vuole, ma se manca quella facoltà, “magica” di mettere insieme i pezzi, e anticipare il futuro, è tutto inutile. Ma questo è un altro discorso, anche se proprio un cane cinematografico, straordinariamente empatico, ci aiuta ad addentrarci in questa riflessione. Sto parlando del protagonista di Adieu au langage (2014) di Jean Luc Godard, dove questo animale scivola furtivo nelle scene più poetiche del film, inserendosi nella vita di coppia in crisi di due persone che non si capiscono più. Il linguaggio del cane, anche grazie a una serie di stereotipi che lo riguardano, è più diretto: ti guarda con i suoi occhi languidi e umidi, e lì passa tutta la comunicazione. L’essenziale, quantomeno, anche se detto così suona un po’ qualunquista, o populista. La devozione del cane per il padrone come devozione alla chiarezza di un linguaggio senza una codificazione semantica di significati.
A differenza del cane, tuttavia, il gatto resta più saldamente ancorato al regno digitale dell’immagine. Il cane è tutto in movimento, con la sua fisionomia più vigorosa, come il linguaggio che attraversa i corpi, facendosi capire nonostante tutto, laddove il gatto invece è calma – ieratica – e scatto fulmineo. Decisamente più facile fotografare i gatti che i cani. Instagram ce lo insegna. Ma ben presto la staticità inghiotte l’immagine dello scatto nervoso e agile. Anche i gatti più espressivi, e simpatici, specie quando sono piccoli, diventano ben presto malinconici. Delle vanitas feline. La vecchiaia, inoltre, li rende più sonnolenti e stanchi, e non a caso il successo di opere, come Abbandonare un gatto di Murakami Haruki e Se i gatti scomparissero dal mondo di Genki Kawamura, contemplano il tema della sparizione. Il gatto si siede accanto a noi, come una statua, e poi sparisce. Forse è un uccellino che ha attirato la sua attenzione, forse è il tempo che ha fatto il suo corso. In ogni caso, dietro ogni transfert ci sta una regressione: a differenza del cane, il gatto ci riporta alle nostre paure di abbandono, di perdita, di distacco, risalenti a un’età in cui non eravamo padroni del linguaggio come delle nostre emozioni. Un tipo di solitudine – non coltivata, ma vissuta con compiacenza – ha un nome nell’era capitalismo patologico: il narcisismo della “fase dello schermo”.
Capitalismo peloso
A pensarci bene, questo discorso è un po’ ozioso. I gatti, tutto sommato, se la passano bene. Meglio di certi altri animali, meglio di molti popoli, paesaggi naturali o architetture storiche che il nostro tempo ha devastato o dimenticato. Il mondo è minacciato, sì — ma il gatto? Il gatto, sorprendentemente, resiste. Resiste al tecno-capitalismo dei feudatari dell’era neo-medievale (e digitale) in cui stiamo scivolando. Un film come Flow - Un mondo da salvare (2024) di Gints Zilbalodis ci aiuta a immaginare un futuro post-apocalittico in cui possono cavarsela senza di noi. Ma noi, invece, nel nostro presente, sembriamo morbosamente attaccati a loro. Il “micio del web” è diventato un’icona, ma anche un feticcio. È ormai appannaggio di una tipologia di amatori ben precisa: narcisisti, snob, vanitosi, cinici, materialisti. Persone che sognano di vedere i propri tratti — l’indipendenza ostentata, l’eleganza sprezzante — riflessi in un animale. E in questa proiezione magica, diventare, a loro volta, desiderabili. La cultura pop ci ha abituato a questa estetica. Gli Aristogatti, per esempio, sono leziosi, manierati, edulcorati. L’economia di mercato, intanto, fa il resto: il gatto sembra distaccato, superbo? Bene! Trasformiamo questa percezione in mitologia. Costruiamo un’estetica appetibile attorno alla sua indifferenza, così che anche l’umano che la imita possa sentirsi cool.
Alla fine, tutto è mercato: anche ciò che un tempo sembrava ripugnante può diventare un prodotto da vendere. È in questo contesto che nasce una nuova razza: il gatto 2.1. Non c’è bisogno di ingegneria genetica: basta uno smartphone. Un filtro, una caption ironica, una luce giusta. L’animale diventa un’estensione dell’identità digitale del suo umano. I gatti sono diventati come Netflix, come la cioccolata calda sotto le coperte mentre fuori piove: strumenti di quella passività forzata, dolciastra e subdola che il sistema ci inocula. Eppure, chi conosce davvero i gatti lo sa: hanno un’espressività diversa, irriducibile, distante da quella dei cani e da quella degli esseri umani. Non sono “carini” nel senso umano del termine. Sono altro. Eppure, il “capitalismo felino” si ostina a volerli raccontare in modo lineare, a misura di like. Si stanno appiattendo le identità dei nostri animali, dei nostri affetti. Li si trasforma in macchiette, in pupazzi animati da desideri proiettati. Un tempo, nella letteratura o nella pittura, cani e gatti erano simboli, ma anche prigionieri: costretti in ruoli, in allegorie. Oggi il pericolo è lo stesso, ma più insidioso: è travestito in maniera tale che sembra intrattenimento libero e spensierato.
Così ci sentiamo in colpa se non compriamo al nostro gatto “aristocratico” delle crocchette chic, se non lo abituiamo fin da piccolo al lusso. È lo stesso modello di mercato che crea falsi bisogni per le famiglie con bambini: se non compri tutto nuovo, se non assecondi tutto ciò che Amazon consiglia, sei un genitore degenerato. L’industria, come il folklore, ha creato nuove gabbie. L’arte, invece, ha sempre saputo offrire una via d’uscita. Ha donato libertà all’orizzonte bestiale, mostrando la diversità infinita, l’assenza di modelli prestabiliti. Davanti a un gatto, l’arte chiede: “Chi sei tu?”, senza aspettarsi una risposta. Né una posa, né un filtro.
L’intrattenimento è una gabbia per gatti
Bjork, il 28 febbraio 2005, pubblicava il video del suo singolo “Triumph of a heart”, tratto dall’album Medulla. La trama è semplice: una crisi di coppia che ripropone tutti i cliché del genere, se non fosse che il “lui” è un gatto travestito. Se uno volesse fare il filologo, direbbe che questa estetica volutamente casareccia, unita al concept di umanizzare l’animale, anticipa molte cose che si vedono oggi diventare virali, eppure ci troviamo nell’universo musicale di una cantante raffinata e colta. L’industria dell’intrattenimento ha degradato pure questo: l’ironia demenziale e caustica che ha contraddistinto da sempre la ricerca artistica d’avanguardia, facendola diventare semplicemente trash. Non solo i soggetti sono degradati oggi ma anche le stesse idee, la stessa ironia. E il gatto borghese, alla fine, che giocava a interpretare la parte, è finito per imborghesirsi davvero.
Gilles Deleuze non apprezzava molto gli animali domestici, preferendo altri animali, come il ragno, ad esempio. Li trova troppo suscettibili alla domesticazione, e quindi vicini a un antropocentrismo che li assimila alle logiche, come questa capitalista. Eppure, io penso che i gatti e i cani siano, paradossalmente, ancora più esotici di una falena baphomet o di un calamaro gigante. Il motivo è che in questo dialogo con noi umani, non esiste una vera simmetria, una vera specularità: siamo noi a volerli umanizzare, quando forse sono loro che ci animalizzano. Questo, a patto però che non li imprigioniamo in narrazioni precostituite a tavolino, che ci vengono vendute con sconto a 40% se inseriamo il codice promozionale MICIOPUCCIOSO40, e ci inorgogliamo quando vediamo in lui degli atteggiamenti apparentemente vanesi che ci fanno sentire legittimati a essere anche noi tali, nel nostro mondo troppo umano basato sul narcisismo. Allora liberiamo gli animali dai nostri bisogni morbosi di trovare in loro uno specchio indulgente, a forma di cuore, che accolga ciò che vorremmo essere. Ma liberiamoli anche dalla cornice che li rende troppo simili a noi, quasi umani, o troppo diversi da noi, “puri” animali. Loro sono simili e diversi da noi, come bestie e come creature addomesticate, è così interessante trovare etichette? Definire, in fondo, non è un modo per evitare di vivere cioè che invece è un terreno aperto di comunicazione? Il mio sospetto è che ciò che si “impacchetta”, foss’anche con le parole, è solo una pratica propedeutica alla commercializzazione di ciò che diventa insensibilmente merce. Ma loro, i gatti, ancora una volta ci guardano, e possono farci distogliere gli occhi dagli smartphone, a patto che insieme alla loro animalità cerchiamo parimenti di collegarci alla nostra umanità.