Han Kang, “La vegetariana”

“La vegetariana”, d’arborea vita vivente, ha un’identità multiforme come i singoli elementi di un’infiorescenza, eppure formanti un unico individuo. Così, il libro di Han Kang è variegato, nelle voci narranti e nei tempi, ma cresce attorno ad un unico stelo, che agglutina l’intera vicenda: il gran rifiuto.

Yeong-hye, protagonista quasi muta, non ha tardato ad apparirmi come una costola di Bartleby, lo scrivano di Melville, del tutto simile, similmente sovvertitrice delle regole dell’universo. Avrebbe potuto dire «I would prefer not to» e l’intera vicenda avrebbe continuato a svolgersi senza sincopi. Invece, Yeong-hye, meno ambiguamente, esprime recisamente la sua volontà: «Non mangio carne». Inizia così, con un semplice e ormai frequente diniego vegetariano, il distacco progressivo di Yeong-hye non solo dalla carne, ma dal cibo per intero, dalle relazioni, dalla realtà, infine dalla vita.

Nel rifiuto di Yeong-hye, e di Bartleby, c’è una forza ostinata tanto forte da produrre due effetti: da un lato fa nascere istantaneamente dei nemici sbalorditi, che cercano in tutti i modi di fronteggiarla e sconfiggerla; dall’altro innesca un movimento che tenta di darne una spiegazione plausibile ad ogni costo. Non mi freno dal dire che i due rifiuti, per giustificare una simile forza, devono avere qualcosa di soprannaturale e perciò ragioni insondabili.
Però, mentre nel capolavoro di Melville Bartleby resta un personaggio di adamantino mistero, circondato da personaggi funzionali alla sua manifestazione, dai ruoli sapientemente bilanciati, così non è per la vegetariana.

Yeong-hye, nonostante la sua volontà palesemente espressa, sembra non bastare a se stessa, è incessantemente adombrata dai personaggi che la circondano, è costretta ad interagire con gli altri, lei vocata al silenzio e all’apatia. Kang non solo la anima, ogni tanto, di qualche sciocco risolino, ma le pone accanto, permettendo che l’attenzione sia distolta, lo sfacelo di altre esistenze, di rango nettamente inferiore. Ha forse una qualche importanza la sofferenza della sorella, banalmente borghese e già raccontata? Ne ha forse la volgarità del marito di Yeong-hye, che la abbandona, o la violenza del padre? Indugiando su simili inezie Kang pare non conoscere il suo personaggio, altrimenti non si potrebbe spiegare la decisione incomprensibile di abbandonare quel nucleo polposo del rifiuto di nutrirsi di carne, e poi di cibo, e poi di tentare l’ascesi della fotosintesi.

Kang tenta di svelare il mistero del rifiuto, è questo il suo errore. Adombra qualche ragione, racconta avvenimenti che sullo sfondo si concatenano gli uni con gli altri, quasi a voler dare una spiegazione plausibile a un atteggiamento che, invece, ha dello straordinario, insomma, insozza col quotidiano una dimensione che per me dovrebbe respirare solo aria pura e rarefatta.

La potenza di Bartleby, che altrove è stata definita la potenza creatrice e divina dello scriba (che in questo caso cessa di scrivere), è proprio quella di non svelarsi; la grandezza di Melville è quella di non dare spiegazioni di una simile potenza. È certamente divertente speculare sul suo significato, ma il divertimento è tale proprio perché non si può arrivare a trarne qualsivoglia conclusione. Di quel mistero le cause restano nascoste e sono anzi convinto che, se davvero qualcuno dovesse mai arrivare a scoprirle, Bartleby perderebbe gran parte della sua forza e della sua bellezza. Le forze divine sono potenti quando sono insondabili, la scienza ha ucciso gli dei.

Ecco il perché delle mie riserve sulle illazioni di Kang, sul suo tentativo di trarre delle conclusioni finali, una sintesi dai comportamenti di Yeong-hye, ed ecco perché ciò che la scrittrice narra, ma che si distacca dalla protagonista per formare altri nuclei, mi pare un impoverimento: Kang ha creato una dea - una dea silvana della negazione, che insinua le regole della realtà - ma ha volto altrove lo sguardo.

Inoltre, moltiplicando le voci narranti e i tempi della narrazione, Kang produce una disomogeneità che accentua ancor di più il distacco dall’immagine divina di Yeong-hye. Che sia troppo forte perché Kang ne possa sopportare la vista?

Non solo il paragone con Melville è poco lusinghiero nei confronti della vegetariana, ma una seconda eco, per me palese, contribuisce a svilirla. Nel secondo capitolo del libro, dal titolo “La macchia mongolica”, una sorta di spartiacque della vicenda, Kang illustra il caso del tutto particolare del cognato della protagonista, un artista che sviluppa un’ossessione erotica per lei dopo aver appreso di una macchia sulla sua natica, la cosiddetta macchia mongolica.

È innegabile che la macchia mongolica di Kang, e le sue conseguenze erotiche, sia un’altra versione della voglia deturpante, quasi il segno del male, che Kawabata colloca sul seno della machiavellica Kurimoto Chikako in “Mille gru”. Anche in questo caso la macchia del corpo provoca una sorta di ossessione in chi la vede. La tangibilità del corpo, intrinsecamente erotico ma macchiato, quindi corrotto, accentra su di sé pensieri volti al negativo: il protagonista di Kawabata ne prova un’ossessiva repulsione, il cognato di Yeong-hye, invece, una malata attrazione che lo porterà alla rovina.

Anche questo secondo capitolo, in ogni caso, è per me un ulteriore esempio dello sguardo mal riposto di Kang, e i brevi cenni alle ragioni del cognato-artista, alle sue modalità e alla sua produzione per me sono sufficientemente eloquenti da dubitare del gusto della scrittrice in fatto di arti visive. In questo punto Kang installa uno iato di tensione nello sviluppo della narrazione, anzi peggio, cambia l’oggetto della tensione: Yeong-hye è relegata a una sorta di apatica stasi, durante la quale infatti cessano i suoi rifiuti, ed è costretta ad assistere all’aria da solista del cognato, che aggiunge senza arricchire, utile solo allo sviluppo della trama del racconto, ma inutile, anzi controproducente per la radicalizzazione della volontà di Yeong-hye.

Avrei preferito un racconto ben più scarnificato, avrei preferito che Kang elevasse la sua vegetariana alla dignità di una divinità creatrice, ben più algida e distante, come Melville ha fatto con Bartleby. Invece, la immerge in questo flusso visivamente appagante, è vero, e pruriginoso al punto giusto da essere attraente - e facilmente convertibile in cinema -, ma a discapito del valore del libro. Questo secondo capitolo è infatti, per me, davvero il peggior danno, la macchia deturpante, che Kang gli abbia inflitto.

Yeong-hye è un personaggio che, in potenza, è l’incarnazione dell’anti-vita. Strenuamente, col suo rifiuto, si oppone alla realtà il cui meccanismo, come si legge giustamente sul risvolto, si inceppa. Ma, come se impaurita da un simile crollo annunciato, Kang rimuove subito l’ostacolo che ha posto e assicura ingranaggi ben ingrassati. Non può rinunciare ad ancorare saldamente la sua dea ad una serie di zavorre, anzi, trasforma persino i sogni, che sembrano essere se non la vera causa quantomeno la forza propulsiva della volontà di Yeong-hye, in un altro paradossale e maldestro tentativo di spiegazione. Personalmente, trovo un po’ ridicoli gli scopi cercati nei sogni, o attribuire loro la responsabilità di azioni future, poiché la luce che gettano illumina esclusivamente il passato.

Ma non vorrei che si pensasse che il giudizio su questo libro sia tanto negativo. In realtà, non lo è, non è stata una lettura spiacevole. C’è però un prestigioso premio di mezzo che fa la voce grossa, ed io ho cercato nella lettura di questo titolo le ragioni dell’assegnazione. Non credo di averle trovate e perciò mi restano un certo senso di frustrazione e l’insoddisfatto desiderio di leggere altro di Kang, per vedere più chiaro nella sua poetica e nelle sue tematiche, da alcuni ritenute tanto meritevoli.