Tommaso Landolfi, “Le due zittelle”
«16 Poiché l’Eterno farà giustizia con il fuoco e con la sua spada contro ogni carne; e gli uccisi dall’Eterno saranno molti.» (Isaia 66:16 LND)
E così l’uomo e la donna occidentali sono cresciuti per secoli, e ancora spesso crescono, con l’idea terrorizzante della vendetta di dio contro i propri peccati.
Dio è un giudice implacabile e violento, o così pare se si leggono certi testi, e punirà ogni uomo ed ogni donna (anzi! Isaia dice proprio «ogni carne», si noti bene) secondo la gravità del proprio peccato. Il peccato, che come si evince dalla lettura di questo racconto pare esistere per se stesso, deve essere controbilanciato da una pena che esige, va da sé, l’esistenza di un peccatore, in primis perché deve esserci l’agente del peccato ma, soprattutto verrebbe da dire, per individuare l’obiettivo della necessaria pena.
Per gli uomini e le donne credenti questo rapporto di causa effetto è banalmente logico e subiscono la punizione, talvolta addirittura desiderandola, come sottoponendosi all’immutabile legge dell’ordine dell’universo. Non vi è pentimento senza pena, bisogna pur pagare per il misfatto compiuto.
Ma cosa succede se, d’un tratto, sul banco degli imputati, fra i peccatori malvagi o pentiti compare non più un essere umano, bensì «un ignaro bruto», una bestia senza coscienza, un semplice privo dell’idea del male e del bene, insomma, cosa succede se a peccare è una scimmia?
“Le due zittelle” risponde a questa gravosa questione: Tomboo la «scimia», detto Tombo, lascito di un defunto e rimpianto fratello militare, vive con due sorelle beghine e desaturate e si ostina a comportarsi da cercopiteco e non da devoto cristiano. Perciò, sprezzando la fede cattolica e i suoi sacri feticci, si reca nottetempo nella cappella di un adiacente convento di monache a commettere atti sacrileghi, blasfemi e pure un poco demoniaci di indicibile gravità: mangiucchia le ostie, spisciazza sul tabernacolo e scimmiotta (pardon) i gesti dei sacerdoti probabilmente spiati in precedenti, audaci fughe dalla gabbia dove vive recluso: «Tombo diceva messa».
La scena è spassosissima, quasi tenera nel vedere vividamente i gesti sgraziati di Tombo che Landolfi descrive in dettagli pelosi di braccia oblunghe e salti audaci.
Il nucleo sostanzioso del libro, che è anche esilarante, è la disputa teologica che due prelati intavolano al cospetto del peccato ignominioso di Tombo, perno attorno al quale si avviluppano, come lo zucchero filato sullo spiedo, i periodi funamboleschi di Landolfi, le sue parole coltissime e dialettali e desuete, la sua prosa tutta, complessa ma appagante, non sfoggio di erudizione fine a se stesso ma mezzo di deliziosa ironia.
Attorno a questo perno si dispongono le estremità della vicenda, una sorta di introduzione descrittiva ed un epilogo riflessivo, in una veste semplice ma raffinatissima, che fanno iniziare e terminare il racconto con un pianissimo grigiastro, quasi la struttura fosse sinfonica, una sinfonia di Mahler, col quale Landolfi condivide ironia dissacrante, varietà e stratificazione dei registri, tragicità assoluta.
Con gran sconvolgimento di monache e sorelle, l’uragano del passaparola di paese impone, senza dirlo, di adottare una soluzione finale per il povero, colpevole Tombo, che Landolfi, con ogni sforzo necessario, si impegna a lasciare intonso nella sua dimensione ferina: «E invero tutte le qualità che un accorto novellatore di razza umana, esperto quanto si voglia di caratteri, può rilevare in un animale o attribuirgli, non sono al postutto che mere supposizioni, cui solo il nostro smodato antropocentrismo presta verosimiglianza». Landolfi splendente come un profeta scrive qua l’epitaffio meritevole di plauso di ogni canaro, gattaro, animalaro sfegatato che dimentica quanto gli animali siano animali, a discapito di pietà, compassione ed empatia per gli altri esseri umani.
L’umanità, bisogna rendersene conto, è un dono che giunge con un prezzo! L’umanizzazione di Tombo, che doveva comportarsi da buon cristiano, guardate dove l’ha portato! È diventato un peccatore!
Che si lascino in pace gli animali a guardare con occhio vacuo la luna e prendiamoci le nostre responsabilità umane senza volerle proiettare su altre creature indifese. Un cagnetto col cappottino ha la stessa responsabilità, nei confronti della distruzione del mondo, di un ordigno.
Ma tornando alla disputa teologica, dunque, non vorrei che si pensasse che fosse un tedioso e prolisso susseguirsi di incomprensibili e circonvolute tautologie. Oh no! Landolfi è uno scrittore di rango divino, e mi si creda, la bellezza e la linearità dei pensieri espressi nella disputa da un lato aumentano la tensione ironica dell’intera vicenda, dall’altro preparano l’oscurità sempre crescente della sua conclusione, e da un terzo lato (poiché Landolfi ha la squisita complessità del genio) veementemente, e in modo del tutto disinteressato, sembrano perorare la causa della conversione del fortunato lettore ad un cristianesimo più giusto e più sensato. Ci stavo quasi cascando anch’io.
Infine, al termine della disputa i cui suoni crescono fino a diventare isterici, giunge l’apice del racconto: esso si consuma in una scena da incubo, spaventosa come il fortissimo di un’intera orchestra.
Il destino mostruoso di Tombo è quello di subire un’orrenda metamorfosi, tramutandosi nell’agnello sacrificale, nel capro espiatorio delle colpe delle sorelle, olocausto offerto alla giustizia terribile del dio che implacabile discende persino sulla carne di una povera scimmia.
Landolfi ci fa fissare gli occhi in quelli di Tombo. La risata e la tragedia, nella sua scrittura, sono di rara intensità, perciò l’avvertimento mi proviene dal cuore: la forza della scena potrebbe farla conficcare profondamente nella memoria del lettore e in parte sconvolgerlo.
D’altra parte, se questo racconto è stato definito da Landolfi stesso il suo migliore, e da altri il migliore di tutto il novecento, un motivo c’è, palese.
Meno comprensibile, anzi per me vero e proprio mistero, è la ragione per cui oggi il vessillo di Landolfi non sia portato più alto tra le fanfare delle patrie glorie. Perciò rispondete al mio appello accorato: leggetelo!