Anamnesi della pietra. Dialoghi con la roccia: dalla Chimera alla montagna
Collezionare è vicenda preminentemente umana e ad oggi non vi è ancora testimonianza d’un cane che faccia incetta la domenica mattina di vasi cloisonné o di un cavallo che perda il sonno per la sua collezione filatelica. E ben gliene incolse al regno animale, poiché ogni uomo è un Giasone eternamente insoddisfatto che giunto al termine della sua quête dorata si darà alla ricerca di un ennesimo vello d’oro.
La ragione del collezionista è difatti aspirare ad una summa dell’universo, o almeno ad una sua parte ed è così che il francobollo e la moneta divengono metonimia del mondo, catalogo ragionato dell’esistente.
E pure si dà il caso della manía, della discesa in noi d’un angelo accumulatore che nella fede di un rinnovato horror vacui mira a stringere tra le ali quanta più porzione di cielo possibile.
E tante sono le collezioni quanti gli oggetti che affollano la terra: conchiglie, violini, incunaboli, coleotteri amazzonici, affiche di cinematografi islandesi. A queste raccolte eclettiche ed eterodosse se ne aggiungono altre più ricorrenti e tra le cartoline e i francobolli troviamo le collezioni di pietre o minerali.
Ma cosa ci attrae nella pietra?
Forse una bellezza che è figlia del caso e del tempo, la bellezza primitiva e pastello dell’agata e del diaspro o quella cesellata da un dio che si rivela nella piuma e nel corallo come nel minerale. O ancora il fatto di tenere in mano una frazione di mondo, di universo.
Eppure qualcosa di più sottile unisce l’uomo alla pietra, una nascita virginale che nel mito trova la sua radice e fa esclamare di notte uomini e statue:
la pietra ci è madre!
Questa terrigna genealogia ha la sua prima affermazione con le veneri callipigie del paleolitico, espressione della dea madre, che annunciano già la pittura di Botero e modernissime come un carattere tipografico in stile Garamond o Bodoni.
Ed è così che da oriente a occidente sorgono Veneri preistoriche di tufo rosso e calcare, di quarzite e serpentino, madonne partorienti e da sempre in attesa come la Venere di Willendorf, che ancora ci osservano -di secoli gravide- dalle teche di un museo
Venere di Willendorf, Naturhistorisches Museum, Vienna.
Queste madri di pietra ci indicano la via, evocano quell’astrologia capovolta che impone di guardare alla terra per decifrare la nostra origine. Non è negli emicicli cosmici o nelle ramificazioni della mano che sibille remote leggono ora il destino dell’uomo, ma nelle stratigrafie del suolo.
Il logos si manifesta non più nel fuoco come ad Efeso ma nella roccia, nel diamante, nel quarzo. È teoria questa di Ibn al Ghassandi che predicò a Baghdad la fede in un betile.
La terra come disiecta membra del divino, il corpo di Dio lacerato e fatto pietra.
E di questa metafisica rovesciata che fa della geologia una scienza celeste appartengono pure i miti della creazione. Così nell’Antico Testamento Adamo, che già nel nome - ‘Adamah - è terra e suolo, è colui che viene alla vita dall’argilla rossa testimoniando l’intima unione tra Uomo (‘Adam) e terra.
A ciò si aggiungerà pure che dam è parola ebraica per sangue e nessuno più dell’ebreo e del linotipista conosce la segreta ragione delle parole. Ed è tale la congiunzione tra nomi e cose che la parola Adamo -uomo, terra, sangue- si fa prologo alla storia dell’umanità e alla sua ontologia.
Si sa infine che gli ebrei, i quali come gli specchi e la copula amano indulgere nella ripetizione, hanno voluto trarre da un’argilla più fragile e modesta un epigono di quel primo Adamo, il Golem che della Creazione originaria è parodia di fango e fiato.
Non meno didascalico del mito ebraico è quello greco che con Deucalione e Pirra fa dell’uomo un fiore di pietra.
I due vecchi amanti sopravvissuti al Diluvio, loro soli in un mondo che trasuda acqua e prodigi, si chiederanno come colmare quella solitudine. Sarà l’oracolo di Temi a suggerire, parlando per speculum in aenigmate, ci informa Ovidio nelle Metamorfosi, di gettare dietro ogni loro passo le ossa della Grande Madre, ossia pietre e roccia, da cui sarebbe nata una nuova stirpe d’uomini e donne.
Deucalione e Pirra, P. P. Rubens
L’uomo si solidifica, le ossa sono calcio, pietra e lento sfuma il ricordo dell’umanità nell’età dell’oro. Dell’uomo che è piuma, che è aria, cielo, come una nebbia che si posa sul mondo. Poi sarà carne, ossa, pietra e deiezioni.
II -La statua e l’uomo
La dialettica che unisce l’uomo alla pietra trova sfogo nella statua, simulacro di marmo e roccia che ambisce a farsi carne. La realtà si impietra e i Fidia e i Michelangelo divengono i sacerdoti di questa nuova religione che fa voto alla Gorgone.
Ed ecco gli imperatori color porfido; Ercoli esangui, bianchi come colombi; Ciclopi da gipsoteca; e poi tritoni e Poseidoni che giocano con l’acqua e la tramontana nelle fontane di Roma. Ora l’occhio di Medusa si posa sul mondo, il suo sguardo si allunga sull’orizzonte e avvolge, come le serpi che tiene in capo, uomini e cose.
Nella statua che gioca ad essere uomo o dio la pietra è l’ombra della carne, specchio muto che ci riflette. E ci ricorda ciò che siamo.
“Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris” [1]
Fratelli della Nike di Samotracia, di corpi decollati dal tempo e dall’iconoclastia, figli della Sfinge dal volto sfigurato ma per cui varranno ancora le parole di Marguerite Duras.
“Tutti dicono che da giovane lei era bella, io sono venuto a dirle che la trovo più bella ora, preferisco il suo volto devastato a quello che aveva da giovane”. [2]
Ph. Mimmo Jodice.
E pure questa ontologia scritta su pietra ci rivela doppi e ambigui come le statue che venendo dalla terra aspirano al cielo, a farsi canone e archetipo. Idea come nei sogni di Platone.
E la carne ritorna ombra nella pietra.
III -La pietra e il monte
La pietra nasconde, cela in sè e custodisce -come il ventre materno- uomini, bestie e dei. Materia prima delle nostri prigioni, nella pietra è il labirinto di Cnosso e avvolto in un bozzolo di roccia è il Minotauro che toglie il peccato dal mondo. Farfalla di pietra nascosto alla borghesia di Creta e che danza tra i massi e la polvere sognando un altro Asterione.
Nella pietra sono pure i nostri antenati che nelle grotte di Lascaux e Altamira affrescano le cacce al cervo e al mammut e le corse selvagge agli Uri, i tori lunari che sopravvissero fino alle porte di Babilonia, prefigurando già i cortei venatori che decoreranno in Europa ville e casino di caccia.
Ma la roccia che è sineddoche della montagna si fa allora simbolo più vasto, immagine della vetta ove risiedono i celesti.
Gyokudō Kawai, Nuvole bianche sulle montagne in autunno, 1940.
Come l’Olimpo, il Fujiyama e il Meru ogni cima diventa casa del divino, luogo dove la terra incontra il cielo. E il sasso che raccogliamo durante l’ascesa -ed ogni ascesa è un percorso iniziatico- è la reliquia del Monte sacro che ci portiamo a casa.
La montagna è però anche luogo di nascondimento, dove si occulta un principio sacro o regale che dovrà venire a nuova manifestazione (parusia). È questo il tema del re nella montagna, il rex absconditus o eroe dormiente che ritroviamo nell’immaginario d’oriente ed occidente, da Carlo Magno a Federico II, da Artù al dodicesimo imam della tradizione sciita.
“Ma questa residenza montana “sotterranea’’ non è che una immagine della misteriosa sede del “Re del mondo’’ che è una espressione dell’idea del “centro supremo”. [3]
E poiché ogni simbolo è doppio e contiene già in sé il suo contrario, il monte -o più espressamente la caverna- diviene terra feconda della divinità. Le grotte, come il grembo della madre, partoriscono dei: Zeus, Gesù, Mitra. Nella pietra nasce il Dio.
Sono questi i figli ultimi di un culto anteriore, antecedente le parole e la scrittura, litolatrico e animista. Da espressione vivente della divinità la roccia ne diverrà nel corso dei secoli simbolo e poi metafora: dal betile di Giacobbe (Beith-El, casa della divinità) [4] al lingam indiano al menhir celtico, fino alla lapis niger di Roma e della Kaabah, eredita quest’ultima di fedi preislamiche. [5]
IV – Di pietra e tempo
Le pietre persistono, recita l’oracolo.
Calpestiamo la roccia dei nostri padri e sulla strada raccogliamo la pietra con cui lapidarono Giacomo il Giusto. Davanti un vecchio forno scalciamo -scherzo di infante- il ciottolo ancora vermiglio del sangue di Golia e in riva all’Eufrate giochiamo a rimpiattino con la pietra del paradiso.
E di pietra e tempo sono le piramidi e la Grande Muraglia, e per decenni, come formiche, si erigono tombe e si depositano rocce sul corpo ancora vivo del Faraone e dell’Impero.
Le pietre persistono, recita l’oracolo.
Più antiche della tigre e dell’idea di Dio, ogni roccia è la memoria del mondo, monade che sopravvive all’uomo e ai sogni.
Al pari della farfalla che vive un solo giorno anche la vita del regno minerale si svolge su un piano temporale che ci è estraneo, fatto di secoli ed ere, ossia di attese che lambiscono l’eternità e che appartengono al “Tempo profondo”, come James Hutton a fine Settecento nominò l’abisso di eoni necessari al formarsi delle grandi catene montuose e che gli indiani, con più immaginazione, chiamano Giorno di Brahma.
E intanto prosegue la vita mercuriale delle pietre, della crosta terrestre che si muove a passo di Giava sotto i nostri piedi.
V – I fossili
Antica è l’idea che le cose belle sono inutili, convinzione che portò i latini a coniare l’espressione “conchas legere”, raccogliere conchiglie, ossia oziare, perdere tempo. Bisogna tornare all’Atene di Pericle perché i cercatori di farfalle, collezionisti di conchiglie e pietre trovino la loro giustificazione.
Opposta alla concretezza romana è la kalokagathia dei greci dove l’estetica si misura con l’etica ed il Bello si fa anche Buono. Ed è questo lo scarto tra l’uomo romano che costruisce ponti, acquedotti ed imperi ed il greco che nelle sue polis vaticina filosofie e metafisiche.
Saranno poi le vaste collezioni di insetti, rocce e bivalvi a contribuire alla nascita della scienza moderna. Ma prima dell’avvento della malecologia, prima che entomologi e geologi dessero un ordine alla Creazione, la flânerie -certo una flânerie silvana, prossima alla wandering tedesca- era ancora un gioco da perdigiorno o saltimbanchi dischiusi alla meraviglia.
Accadeva così che, chini nelle pietraie e nelle argille, si raccogliessero insieme a quarzi e farfalle anche resti fossili, presenze liminari sospese per secoli a metà tra l’organico e l’inorganico, il regno minerale e quello animale.
Fin dopo la caduta di Costantinopoli gli uomini testimoniarono del passaggio del Basilisco nelle città e nelle campagne, dove vivevano impietrati come in un bestiario preistorico l’Uccello di Montmartre e l’Alligatore dell’isola di Wight (Toliapicus), pesci e pachidermi, ammoniti e trilobiti. Presenze ctonie che emergevano dal fondo della terra e che il Rinascimento esorcizzò col nome di “lusus naturae”, scherzi o capricci della natura.
Messe da parte chimere e basilischi rimasero le forze oscure e misteriose di Aristotele e Avicenna a modellare la pietra in fossili, vapori e nebbie che esalano dall’oceano come fumenti e che fecondano la terra senza imprimere la vita. Ciò che resta è un cimitero di feti, aborti di pietra che popolano il sottosuolo in una parodia della Natura naturans e della Creazione, in cui la vita si rinserra nella roccia.
E se prima di Stenone e Cuvier furono i sacerdoti egizi nelle oasi di Ammone e Senofane a intuire il reale significato dei fossili, fino al Settecento furono le teorie più dissennate a rimanere in auge nei gabinetti di storia naturale, facendo della geologia un almanacco di fantascienza o un preambolo alla storia del surrealismo.
Ed è così che nel 1725 Johann Bartholomäus Beringer, professore di Scienze Naturali all’Università di Würzburg, si convinse che sul monte Eibelstadt le forze cosmiche congiurassero con la pietra alla formazione dei fossili. In quell’angolo di Baviera erano la luna, i pianeti e tutti gli emicicli cosmici a partecipare alla nascita delle “lapides figuratae”, ciottoli e basalti al cui interno -in uno stato di sogno od ombra- vivevano animali ed astri.
Salamandre, felci, stelle e poi rane e angeli impietrati. I fossili del monte Eibelstadt divennero la matrice di tutto l’esistente ma ignorando che i frammenti di quel serraglio cosmico fossero -come le teste di Modigliani- un’ingenua mistificazione, nel 1726 Beringer darà alle stampe la Lithographiae Wirceburgensis presentando al mondo accademico rocce e dottrine celesti e iscrivendo al contempo il suo nome tra i personaggi della Commedia dell’arte.
Saranno J. Ignatz Roderick e Georg von Eckhart [6], questi Bruno e Buffalmacco [7]di Baviera, a rivelare l’inganno quando sulla strada per il monte Eibelstadt faranno ritrovare un ennesimo reperto:
Vivat Beringerius
facendo del professore di Würzburg un Calandrino boccacesco, “malinconoso con la casa piena di pietre”.
Da allora i fossili del monte Eibelstadt saranno conosciuti col nome di Lügensteine, pietre bugiarde, destituendo le scoperte di Johann Bartholomäus Beringer dall’alveo della geologia ma innalzandole nel territorio della patafisica.
J. B. Beringer, Lithographiae Wirceburgensis.
[1] "Ricordati, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai"
[2] M. Duras, L’amante.
[3] J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno
[4] “E questa pietra, che ho eretto come un pilastro, sarà la casa di Dio”. Genesi 28, 22
[5] Culti legati alle “pietre nere” si ritrovano dall’Anatolia a Roma fino ai deserti arabi e alle steppe mongole, e rientrano anch’esse nella categoria dei betili, ossia delle pietre considerate dimore divine. A ciò si aggiungerà che “il betilo è propriamente la rappresentazione dell’Omphalos, cioè un simbolo del centro del mondo, che s’identifica nel modo più naturale con l’abitacolo divino”.
R. Guenon, Simboli della Scienza Sacra
[6] J. Ignatz Roderick, professore di algebra e analisi all’Università di Wurzburg. Georg von Eckhart, bibliotecario dell’Università di Wurzburg
[7] G. Boccaccio, Calandrino e l’elitropia